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A Berlino riapre la Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe

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Un progetto di restyling ad opera di David Chipperfield Architects dona nuova vita alla grande opera di Mies. Ad inaugurare la riapertura il 22 agosto una mostra dello scultore Alexander Calder.

Nel 1962, quando la città portava le ferite della guerra, vennero realizzati da Sharoun accanto a Postdamer Platz gli iconici edifici della Biblioteca di Stato, la Filarmonica e la Galleria d’arte nazionale di Berlino per ospitare le opere d’arte del XX secolo che portò il grande architetto tedesco a rientrare dall’America per occuparsene. Questa opera costituisce insieme alla precedente realizzazione del Padiglione Barcellona del 1928 la consacrazione di un Maestro dell’architettura.

Dalla sua inaugurazione nel 1968 e per circa 50 anni la Galleria non aveva mai chiuso, fino a quando nel 2015 si decise di intervenire con un progetto di restauro e consolidamento degli elementi costruttivi e dei materiali utilizzati per la sua realizzazione, nonché con un progetto migliorativo per gli aspetti legati alla sicurezza della fruizione.

È a questo punto che entra in gioco David Chipperfield, già occupatosi della ricostruzione del Neues Museum e della realizzazione della James Simon Gallery. Approcciarsi al progetto di un edificio così iconico non è del tutto semplice, seppure il carattere distintivo di Mies sia l’elementarietà, ovvero ridurre le complessità dell’architettura ad elementi semplici. I criteri guida sono stati così esplicitati da Chipperfield:

“La chiave del complesso processo di pianificazione di questo progetto è stata trovare un giusto equilibrio tra la conservazione del monumento e l'uso dell'edificio come museo moderno. Gli inevitabili interventi sul tessuto originario all'interno di questo processo dovevano essere conciliati con la conservazione della sostanza originaria. Sebbene le integrazioni essenziali rimangano subordinate al progetto esistente dell'edificio, sono tuttavia leggibili come elementi contemporanei.”

I temi predominanti sono quello dell’Aula, che chiarisce immediatamente la funzione pubblica del luogo, la grande copertura che rimanda alle suggestioni ancestrali del riparo domestico ed il podio che eleva l’edificio rispetto al calpestio esterno rendendolo nuovo punto di fuga dell’impianto urbanistico. Otto pilastri cruciformi, profilati a T, scandiscono le facciate, liberando gli angoli e lasciando una luce libera ad ampio respiro. Al di sopra la grande piastra di copertura alta 2 metri e di 64,80 m di lunghezza per lato sembra fluttuare nel vuoto grazie alle grandi vetrate della sala interna le cui dimensioni sono pari a 50,40 m x 50,40 m. Il regolare percorso del visitatore viene stravolto nel progetto di Mies, che colloca al piano inferiore le vere e proprie sale espositive del Museo, all’ingresso infatti un grande vuoto, interrotto solo da due elementi verticali, accoglie i fruitori.

L’intervento di Chipperfield, dunque, vede una lunga fase di analisi, catalogo, restauro degli elementi prima del progetto vero e proprio di restyling, che come afferma lo stesso progettista:

“non rappresenta una nuova interpretazione, ma piuttosto una riparazione rispettosa di questo punto di riferimento dello stile internazionale”.

È stata operata una sostituzione delle vetrate esterne pur conservando la griglia in acciaio, così come sono stati fatti interventi manutentivi per la struttura portante in cemento armato. Sono stati rimossi, restaurati e riposizionati le griglie metalliche della sala principale e le lastre della pavimentazione in pietra naturale per un totale di 35.000 elementi. A livello di impiantistica è stato sostituito il sistema di illuminazione, di climatizzazione e l’ascensore di collegamento tra i due piani. Infine, altri ambienti come il punto di ristoro, lo shop e il guardaroba sono stati ammodernati.

Non è un progetto del tutto terminato, presto infatti verrà realizzato un tunnel di collegamento con un’altra grande opera che sarà realizzata da Herzog & de Meuron: il Museo del XX secolo.


“Ruinengarten”, il Giardino delle Rovine

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La palafitta sulla Sprea a Berlino, progettata per l’artista tedesco Anselm Reyle dalla moglie Tanja Linke è immersa all’interno di un parco singolare che prende il posto del cantiere navale della polizia idrica della RDT degli anni Settanta, ormai dismesso.

Passerelle in cemento armato, armature di sponde e rimesse per barche entrano in simbiosi con la vegetazione e il fiume. All’interno della casa e dell’Atelier tra le opere dell’artista stesso sono collezionati pezzi di design di altri artisti.

La casa è quindi il cuore del giardino, la visuale sulla Sprea si apre tramite un giardino abbandonato preesistente, l’affaccio sull’acqua invece è reso con il sollevamento dell’edificio, rendendolo di fatto una palafitta i cui pilastri sono stati realizzati con una cassaforma in legno grezzo. Il nucleo centrale, così come il cornicione del parapetto superiore, è in calcestruzzo leggero che si mimetizza con l’ambiente circostante attraverso l’impiego di una cassaforma industriale a pannelli di calcestruzzo a vista. Il blocco abitativo vero e proprio si contrappone al piccolo nucleo centrale privo di aperture con finestrature che si snodano lungo tutto il perimetro dell’edificio. All’interno la casa non prevede mura divisorie, ma pannelli in vetro, riprendendo lo stesso elemento dalla rimessa delle barche esistente, o nel caso della zona giorno l’arredo diventa elemento di separazione realizzati dallo stesso Reyle.

Non si tratta solo della volontà dell’architetto di operare in senso conservativo secondo la ben nota estetica della rovina quale traccia della memoria, si tratta di un progetto nato e sviluppatosi nel corso di dieci anni, anni che hanno visto una trasformazione dell’area più che materiale concettuale. Come racconta la progettista:

“Quando l’abbiamo trovata, l’area era in stato di abbandono molto avanzato, soprattutto l’edificio principale da cui è stato poi ricavato il Ruinengarten: era il capannone dove venivano riparate le barche, costrutio negli anni Settanta, e occupava proprio il centro del lotto. Noi non avevamo bisogno di molto spazio e non abbiamo contemplato l’opzione di ricostruirlo. Allo stesso tempo non volevamo cancellarlo, piuttosto trasformarlo”.

Non tutti gli edifici esistenti sono stati demoliti, la scelta è stata operata in maniera critica seguita da prove, realizzazione di modelli e simulazioni. Successivamente, dopo gli interventi a carattere strutturale, si è passati a quelli paesaggistici. La piantumazione di piante resistenti e che non richiedevano troppa manutenzione è stata una operazione pianificata ed elaborata nel tempo, come afferma la Lynke:

“Abbiamo piantato subito molti alberi, fiori, piante, ma ci siamo resi conto che avevamo piantato troppo, commettendo l’errore tipico di chi non ha troppa esperienza con i giardini. Solo in un secondo momento abbiamo scoperto la natura apparentemente “spontanea” dei progetti di Piet Oudolf e visto il suo intervento sulla High Line a New York. Abbiamo allora rifatto il giardino nel 2014, e abbiamo scelto di piantare alberi e piante che si possono trovare di solito in queste aree industriali abbandonate: era importante per noi non scegliere fiori per la loro bellezza, ma qualcosa che potesse realmente accordarsi al contesto di rovina”.

Il progetto nel suo complesso risulta essere perfettamente equilibrato, la pianificazione e l’essenza più selvaggia dell’area si amalgamano traendo ispirazione dal giardino spontaneo e pittorico e da quello romantico. Sostanzialmente l’edificio stesso si trasforma in giardino dando origine alla rovina:

“Per noi il riferimento è stato ai giardini inglesi, che costruiscono davvero le rovine come elementi artistico-architettonici nel paesaggio, le folies: in un sito industriale l’effetto è come se fosse un paesaggio residuale, ma in realtà è del tutto progettato”.

L’erba cresce attraverso le feritoie e fessure del cemento degradato e il tutto non sembrerebbe ad un occhio inesperto frutto di una progettazione, la bivalenza tra controllo e spontaneità si riversa dal giardino verso gli edifici, rendendo difficile una distinzione tra quello che c’era e quello che è stato realizzato.